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Siria: «Così tortura e uccide Assad»

Siria: «Così tortura e uccide Assad»

 Il dittatore siriano Bashar Al Assad è da ieri sottoposto in Francia a un’inchiesta giudiziaria per «crimini contro l’umanità». Il procedimento si basa sulla testimonianza di «Cesar», nome in codice del fotografo della polizia militare incaricato dalla burocrazia di catalogare le immagini delle vittime della repressione. «Cesar» ha tradito il regime facendo arrivare in Occidente 45 mila immagini di 11 mila persone torturate e uccise nelle carceri di Assad. Per la prima volta l’ex militare si è confidato con la giornalista Garance Le Caisne in un libro - «Opération César» (Stock) - che ha fatto partire l’inchiesta e che uscirà il 7 ottobre. Qui di seguito pubblichiamo alcuni estratti in anteprima.

***


Per noi era ancora più doloroso guardare le immagini sul computer che fotografare i corpi. Sul posto, fra i cadaveri, non ci si poteva attardare. Il medico legale ci metteva fretta, gli agenti dei servizi di sicurezza ci osservavano e annotavano le nostre reazioni. In Siria, comunque, tutti sorvegliano tutti.


Visto che non avevamo nemmeno il diritto di porre domande, era più facile scattare le foto senza soffermarci sulle ferite, era più semplice cercare di non provare alcuna emozione. Ma nel silenzio del nostro ufficio eravamo un po’ più liberi, avevamo tempo. E quando stampavamo le foto, le incollavamo, non potevamo più distogliere lo sguardo. Le immagini erano davanti a noi. Erano terribili. Il detenuto riviveva sotto ai nostri occhi. Vedevamo davvero i corpi, immaginavamo la tortura, sentivamo i colpi. In un mese di detenzione, i prigionieri cambiavano completamente volto. Al punto che poteva succedere di non riconoscerli. 
Uno dei miei amici è morto in carcere. Abbiamo fotografato il suo corpo senza sapere di chi fosse. Solo più tardi, mentre cercavo informazioni per il padre, mi sono reso conto che la sua foto era passata fra le nostre mani e che io non l’avevo riconosciuto.


All’inizio, eravamo disgustati. Nauseati. Potevo stare tre o quattro giorni senza mangiare quasi nulla. Poi, tutto questo è diventato il nostro quotidiano, una routine, ha fatto parte di noi. Un giorno, un mio collega si trovava nell’ospedale di Mezzeh. I corpi erano disposti uno accanto all’altro. A un certo punto ha avuto l’impressione che uno fosse ancora vivo. Respirava debolmente. «Devo fotografarlo? È ancora vivo», ha chiesto ai militari incaricati di spostare i cadaveri. Ma ecco arrivare il medico legale, che si è arrabbiato: «Come, è ancora vivo?! Ma come faccio io? Così mi cambiano tutti i numeri!». Era in collera perché aveva già riempito il quaderno con i numeri dei cadaveri, attribuiti via via a ognuno. Se quell’uomo era ancora in vita, il medico avrebbe dovuto cancellare, assegnare nuovi numeri, riscrivere tutto. «Non preoccuparti, vai a bere una tazza di té e nel frattempo risolveremo il problema», gli ha risposto un militare. Al suo ritorno, hanno finito di scattare le foto (l’uomo era stato ucciso, ndr ).


Con i miei colleghi, formavamo una équipe di una dozzina di fotografi, ci sostenevamo a vicenda. Ci dicevamo: «Quando arriverà il giorno del Giudizio saremo costretti a dare spiegazioni: “Che cosa avete fatto tutti quegli anni con quel regime criminale? Perché siete rimasti?”».


(...) Più volte alla settimana portavo le foto a Sami. Le copiavo su una chiavetta Usb che lui mi aveva dato, mentre ero solo in ufficio, sempre col timore che qualcuno entrasse e mi vedesse. Quando uscivo, nascondevo la chiavetta nella scarpa sotto al tallone o nella cintura. Per tornare a casa, dovevo passare attraverso quattro o cinque sbarramenti del regime. Avevo molta paura. I soldati avrebbero potuto perquisirmi, anche se avevo un documento dell’esercito.


Per due anni, mi sono trovato tra due fuochi. Da un lato, temevo di essere arrestato dai ribelli perché lavoravo per il regime; dall’altro, temevo di essere catturato dal regime perché raccoglievo le prove delle torture. In entrambi i casi, rischiavo la morte, e la rischiava anche la mia famiglia. Ma volevamo che le foto uscissero dal Paese affinché le famiglie dei morti sapessero che i loro cari non c’erano più. Bisognava far sapere alla gente quel che accadeva nelle prigioni e nei centri di detenzione. 

FONTE: www.ilcorriere.it 

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      gen 16, 2023

TELEWIZJA SATELITARNA W WARSZAWIE

    Jan. 06, 2023       0 Comments

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